L’iniziativa di un insegnante per far capire il dramma dei migranti che attraversano il Mediterraneo

6 Febbraio 2019

Un docente di scuola media ha pensato di coinvolgere gli alunni in una dimostrazione pratica dal forte valore educativo.

Enrico Galiano è un insegnante delle medie (e scrittore) di Pordenone che ritiene che l’insegnamento non debba essere un monologo del docente, ma un’interazione con gli studenti. Per lui, i ragazzi «non ti ascoltano, se tu per primo non li ascolti». Tra le sue iniziative in classe, ha pensato di coinvolgere gli alunni in una dimostrazione pratica del dramma che vivono i migranti che attraversano il Mediterraneo, condividendo poi sulla sua pagina Facebook il racconto dell’esperienza. Siccome è un’attività che potrebbe essere replicata nelle scuole e che ha un forte valore educativo, abbiamo pensato di proporvelo.

“Ieri ho detto ai ragazzi: «Domani venite a scuola con una bottiglietta d’acqua vuota».
Sui loro volti, lampante che neanche le insegne di Las Vegas, la domanda «E che cavolo si inventerà stavolta il prof?»
«Lo vedrete domani».

Oggi sono entrato in classe. Con un secchio.
Ho detto ai ragazzi di sedersi in cerchio. Ho dato a ciascuno di loro un piccolo foglio di carta.
Gli ho detto: «Adesso pensate alla persona a cui volete più bene al mondo. Poi disegnate un omino stilizzato e vicino ci scrivete il suo nome»
«Ma io posso scriverne due?»
«Certo, anche tre se vuoi!»
E dopo ho chiesto loro di riempire la bottiglietta, di versarla nel secchio e di tornare a sedersi.
L’idea me l’ha data un libro: Ammare, di Alberto Pellai e sua moglie Barbara Tamburini. Perché domenica è la Giornata della Memoria, e sinceramente a me di parlare solo di Shoah non mi va più.
Perché per pensare che il passato si stia ripetendo identico bisogna essere un po’ miopi. Ma per non vedere pezzi di quel passato nel nostro presente, bisogna essere proprio ciechi.
Davanti ai loro occhi ho fatto una grande barca di carta, e gli ho detto di metterci ciascuno il proprio foglietto sopra. Poi ho appoggiato la barca sulla superficie dell’acqua. Infine ho iniziato a far vacillare il secchio, fino a che la barchetta non si è ribaltata, facendo cadere giù tutti i foglietti. Tutti quei nomi, quegli omini, giù in fondo al secchio.
C’era chi aveva messo il papà, chi la migliore amica, chi il cuginetto di un anno.
Si è creato un silenzio incredibile. Più di un minuto senza che nessuno fiatasse. E se qualcuno sa come sono i ragazzi di terza media, sa che avere un minuto di totale spontaneo silenzio è quasi un miracolo.
C’erano anche degli occhi lucidi. Oltre ai miei, dico.

E allora ho raccontato loro del naufragio del 18 aprile 2015, in cui nel Canale di Sicilia sono morte più di mille persone, tante quasi come nel Titanic. La loro barca, un peschereccio fatiscente che di persone ne poteva contenere al massimo duecento.
E ho raccontato loro di una di quelle: un bambino più piccolo di loro, originario del Mali, che è stato ritrovato con la pagella cucita sulla giacca.
«Secondo voi perché un bambino dovrebbe salire su una barca così?»
«Per far vedere che aveva studiato!»
«Per dire a tutti che era bravo a scuola!»
E poi un ragazzino macedone, di fianco a me, a bassa voce ha detto:
«Forse per far vedere che non era cattivo, come molti pensano di tutti quelli che arrivano».

La campanella è suonata. Anche per non appesantire troppo il momento, ho detto loro di mettere a posto tutto, di andare a ricreazione. Sono usciti, e piano piano hanno ricominciato a parlare, a chiedersi la merenda, le solite cose.
Sono rimasto solo a sistemare la mia roba.
Poi è successa una cosa.
A un certo punto sento dei passi dietro di me.
Tre ragazze.
«Scusi prof»
«Sì?»
«Noi vorremmo…»
«Voi vorreste…?»
La più coraggiosa delle tre prende il coraggio e dice tutto in un fiato:
«Possiamo tirare fuori quei fogli da lì?».
Ci siamo chinati, li abbiamo tirati su uno per uno, insieme.
E intanto io le guardavo, e dentro di me pensavo che finché tre ragazze decidono di saltare la ricreazione per tirare su dal fondo di un secchio dei fogli di carta, c’è ancora motivo per credere in un mondo diverso.”

SEI AUTORITARIO o AUTOREVOLE?

“Non inducete i ragazzi ad apprendere con la violenza e la severità, ma guidateli invece per mezzo di ciò che li diverte, affinché possano meglio scoprire l’inclinazione del loro animo” – Platone, Repubblica, VII

Spesso si sente parlare di genitori, insegnanti o datori di lavoro autoritari, in contrapposizione ad uno stile autorevole.

Di fronte all’errore dell’altro (figlio, studente o un collaboratore…) si può reagire in modi diversi:

“Hai sbagliato un’altra volta! Eppure lo sai che non si fa così!” (stile autoritario)

oppure

“Cerchiamo di capire cosa è successo” (stile autorevole)

Una persona è AUTOREVOLE quando:

1) riesce ad osservare e capire senza dare giudizi definitivi o etichette,

2) rispetta il punto di vista dell’altro, non lo giudica anche quando non lo condivide

3) valorizza l’autonomia dell’altro,

4) riconosce nell’altro le capacità e le valorizza.

Lo stile AUTORITARIO invece si caratterizza per richiedere l’obbedienza; la persona “autoritaria” non scende a compromessi ricorrendo anche a metodi coercitivi e punitivi.

La differenza più importante tra stile autorevole e autoritario sta nel fatto che l’autorità si configura per il potere che la persona assume: ad esempio uno studente obbedisce all’insegnante solo perché lo riconosce come colui che ha un potere legittimato dal ruolo che assume nel contesto scolastico. Oppure il titolare di un’azienda viene riconosciuto come “capo” perché di grado superiore rispetto ad un collaboratore visto come “sottoposto”; il potere, come in questi esempi, limita la libertà personale dell’altro perché manca la capacità di ascoltare, di comprendere e crea una relazione basata sulla sottomissione oppure sul conflitto.

Il comportamento autorevole, invece riconosce nell’altro le competenze e la relazione si basa su una corrispondenza tra le richieste che si fanno e ciò che si è.

All’altro estremo dell’autorità c’è il permissivismo, cioè quell’atteggiamento caratterizzato dalla convinzione che tutto sia lecito.

Quali sono le conseguenze di una relazione basata sull’autorità? Vediamone alcune:
Jesper Juul nel suo libro “il bambino è competente” (1995), parlando della famiglia retta dal potere (autoritaria o patriarcale) afferma: “quello che abbiamo insegnato ai figli per anni è il rispetto del potere, dell’autorità e della violenza, non il rispetto per gli altri esseri umani”.
Una donna che ho incontrato nel mio studio disse parlando di suo padre: “mio padre che non voleva capire il mio punto di vista e categoricamente il no era no e il si era si senza discutere, mi ha fatto sentire per molto tempo inadeguata”. Non ascoltare il punto di vista dell’altro fa sentire l’interlocutore svalorizzato nel suo modo di pensare e inizierà piano piano a convincersi di non avere valore come persona.
La persona autoritaria fa notare l’errore dell’altro attraverso la critica con l’idea di correggere un comportamento. Questo comporta che l’altro deve ammettere di aver sbagliato vivendo l’errore come un fallimento perché vissuto come qualcosa di male. Tutti noi sappiamo quanto pesa vivere gli errori come fallimenti!

Baumrind (1977) identifica nel rapporto genitori-figli, oltre allo stile autoritario, permissivo e autorevole anche lo stile “iperprotettivo” e quello “respingente trascurante”. Il primo si esprime quando i genitori sono molto ansiosi, hanno paura che i figli sbaglino e tendono a sostituirsi a loro nelle attività che i figli potrebbero fare anche da soli. In questo caso si possono avere due conseguenze: i bambini dipendenti si caricano delle stesse ansie e paure dei genitori oppure i bambini si aspettano che i genitori soddisfino ogni loro richiesta. Lo stile “respingente-trascurante” si esprime quando i genitori non sono coinvolti nell’attività dei figli, di cui ignorano le necessità. Il messaggio che inviano ai figli è: “Fai quello che vuoi, lasciami in pace”.

La nostra capacità di relazionarci con gli altri dipende soprattutto dalle esperienze che abbiamo avuto in famiglia e dai ruoli che in essa abbiamo assunto. Può essere difficile cambiare atteggiamento anche quando ci rendiamo conto che il nostro modo di fare può ferire o danneggiare l’altro; per riuscirci è necessario un impegno quotidiano e la volontà di capire le nostre emozioni, cioè i “vissuti” che organizzano i nostri comportamenti e costruire, così, strategie che possono migliorare la relazione con i nostri contesti di appartenenza.

(M.Falocco, psicologa)

Scuola, genitori e docenti. Alleiamoci tutti per un unico fine: educare

di Aurora Di Benedetto 

“Insegnare le regole del vivere e del convivere è per la scuola un compito oggi ancora più ineludibile rispetto al passato, perché sono molti i casi nei quali le famiglie incontrano difficoltà più o meno grandi nello svolgere il loro ruolo educativo. In quanto comunità educante, la scuola genera una diffusa convivialità relazionale, intessuta di linguaggi affettivi ed emotivi ed è anche in grado di promuovere la condivisione di quei valori che fanno sentire i membri della società come parte di una comunità vera e propria. La scuola affianca al compito ‘dell’insegnare ad apprendere’ quello ‘dell’insegnare a essere’”. (Indicazioni nazionali per il curricolo)

È sconfortante leggere questi passi delle Indicazioni nazionali dai quali emerge chiaramente la difficoltà educativa delle famiglie, per cui la scuola deve in un certo senso assumere su di sé il compito di coadiuvare le famiglie nell’educare le nuove generazioni al rispetto delle regole infondendo loro il senso del limite. Quale errore sta alla base di tali difficoltà? Non essendo una sociologa, faccio delle ipotesi senza alcuna pretesa di esattezza o esaustività.

La relazione genitori-figli è per sua natura una relazione asimmetrica, i ruoli sono diversi; il genitore è la persona compiuta in cui inizialmente il minore si identifica e alla quale poi in adolescenza si contrappone sviluppando in questo modo una propria identità. Molti genitori, aderendo alla moda del genitore-amico, trasformano coartatamente quella relazione in simmetrica privando il proprio figlio di un punto di riferimento necessario per la sua crescita, privandolo anche dei limiti e delle regole che sono indispensabili per non vivere nel caos e per sperimentare la libertà vera. Inoltre alcuni genitori sono psicologicamente fragili, sono terrorizzati dalla possibilità che i loro figli non li amino o che smettano di amarli e così i no che pronunciano son davvero pochi e anche poco convinti.

Effetti: quando va bene mamme che in lacrime chiedono alla maestra come fa a farsi ascoltare dal pargolo che ormai a casa tiranneggia mamma e papà. Quando va male genitori che intimano ai docenti di essere indulgenti con i loro figli perché una presa di posizione netta potrebbe ferire la loro sensibilità. Quando va ancora peggio genitori inferociti aggrediscono il docente che ha osato riprendere il principino di mamma e papà.

Come uscire da questa empasse? È  difficile e soprattutto è un percorso che va iniziato prestissimo ovvero al primo contatto del bambino con la scuola. Dobbiamo far comprendere ai genitori che noi e loro abbiamo lo stesso obiettivo: il bene del bambino. Tenendo presente ciò dobbiamo stringere una alleanza di ferro. Ci possono essere dei disaccordi e delle incomprensioni come in ogni rapporto, ma in queste non deve mai essere coinvolto il bambino. Il bambino non deve mai sentir parlar male del docente dai propri genitori così come non accadrà mai il contrario.

Stanti queste premesse, quando si presenta un problema bisogna parlare chiaro con i genitori, coinvolgendo l’alunno in prima persona perché è di lui che si sta parlando e bisogna richiamarlo alle sue responsabilità. Mi capita spesso di dire all’alunno in presenza del genitore: “Tu sei un bambino intelligente e io a volte mi arrabbio con te perché non voglio che tu sprechi questo dono. Se non ti ritenessi capace di fare una cosa non mi arrabbierei, accetterei i tuoi limiti ma tu questi limiti non li hai, puoi riuscire! Quello che fa la differenza è il tuo impegno, la tua volontà… solo questo!” Non sono parole magiche, ma danno il via a un processo lungo e impervio in cui il bambino, il genitore e il docente sono tutti alleati per un unico fine.
( 18 Luglio 2018)

FARE SCUOLA OGGI

Articolo Pubblicato su “TUTTOSCUOLA”

03 marzo 2016

TUTTO PUO’ AIUTARE a… “SCALDARE MENTE E CUORE” per RENDERCI MIGLIORI…

BUONA LETTURA…

Uno slogan molto fortunato descrive in maniera efficace il grande cambiamento che si è verificato, in tempi recenti, nel modo di pensare alla scuola e ai suoi compiti fondamentali: “dalla scuola dell’insegnamento alla scuola dell’apprendimento”. Che cosa si vuole intendere con tale affermazione?  Ci può venire in aiuto una nota citazione, utilizzata dallo stesso E. Morin, quando riporta il detto attribuito a Montaigne:  <<è meglio una testa ben fatta che una testa ben piena>>. Forse che l’insegnare si possa interpretare come un ‘riempire le teste’?.  Non è, certo, questo il senso di insegnare, verbo che rimanda a ben più profondi significati. L’ insegnante è colui che lascia una traccia, che segna l’esperienza dei suoi allievi. Nell’essere insegnante è implicito l’avere una grande responsabilità. Scrive D. Pennac, ricordando la sua esperienza molto dolorosa di alunno eternamente votato all’insuccesso:<>.

 Cambiare la prospettiva dell’insegnamento

 Dire che siamo di fronte ad un cambiamento di prospettiva, che vede l’apprendimento balzare in primo piano e prendere il posto centrale che tradizionalmente era stato occupato dall’insegnamento, non significa cancellare o anche solo impoverire la funzione di chi insegna. In gioco non è l’importanza della relazione educativa, e in particolare l’autorevolezza dell’insegnante, che ne ha la principale responsabilità, ma ciò che viene messo in discussione è quella impostazione didattica consolidata da una lunghissima pratica che vede l’insegnante preoccupato di trasmettere conoscenze e di formare abilità destinate a durare nel tempo.

Che la scuola debba insegnare a pensare, e non imbonire di nozioni gli studenti è stato detto da autorevoli pensatori, fin dall’antichità e le citazioni, riferibili a tutti i periodi storici, sarebbero veramente numerose.  In realtà, nell’immagine della ‘testa ben fatta’ , E. Morin propone, oltre alla critica alla scuola nozionistica e pedante, qualcosa di molto nuovo, che spiega perché sia ritenuto indispensabile cambiare paradigma, assumendo come riferimento chiave l’apprendimento e non l’insegnamento.

Oggi la necessità di una rivoluzione paradigmatica è molto più forte e urgente del passato. In un breve arco di tempo si è compiuto il passaggio da una società caratterizzata da una economia impostata sul modello industriale ad una di tipo post-industriale, dalla modernità alla post-modernità.

Il mercato del lavoro cerca lavoratori con una formazione elevata, che dimostrino capacità di ragionamento, di assunzione di responsabilità, di fronteggiamento efficace di nuovi problemi e di acquisizione di nuove competenze. << L’economia della conoscenza richiede molto di più che la memorizzazione dei fatti e delle procedure. Oggi l’educazione dei lavoratori deve includere una comprensione teorica dei concetti complessi, nonché la capacità di utilizzarli in modo creativo per generare nuove idee, nuove teorie, nuovi prodotti e nuove informazioni. Un lavoratore formato secondo questi criteri deve essere in grado di valutare criticamente quello che legge, di esprimersi con chiarezza, sia verbalmente, sia per iscritto, e di comprendere il pensiero scientifico e matematico. Deve inoltre apprendere a conoscere in modo integrato ed applicabile, piuttosto che riprodurre una serie di fatti e di comportamenti stagni e in modo decontestualizzato. Deve infine essere in grado di assumersi la responsabilità del proprio apprendimento continuo, sull’arco di tutta la vita. Queste capacità sono di grande importanza per l’economia, per mantenere il successo della democrazia, e per condurre un’esistenza soddisfacente, significativa>>.

Non sarà rimanendo dentro l’antico paradigma dell’insegnamento trasmissivo e dentro il vecchio rigido impianto della burocrazia scolastica che si potranno trovare le risposte efficaci.  <> Come richiama E. Morin, più che di riforme di programmi c’è bisogno di riformare il pensiero che utilizziamo quando ci occupiamo del senso della scuola nel XXI secolo.

Il nuovo contesto richiede ai sistemi educativi, in particolare alla scuola, di ripensare profondamente la propria impostazione, rivedendo metodi, contenuti, riferimenti valoriali.

La consapevolezza della inservibilità del modello didattico tradizionale postula un profondo cambiamento nella impostazione didattica, pena il rischio che essa diventi sempre più anacronistica, incapace di fornire l’attrezzatura cognitiva indispensabile a vivere nella complessità di una società dove tutto si modifica rapidamente, e conoscenze e abilità acquisite dopo un lungo tirocinio scolastico possono, molto presto, risultare inservibili.

 Insegnare ad apprendere, cioè?

La società della conoscenza, figlia di un’economia molto diversa da quella della società industriale, mette sul tavolo buoni argomenti a sostegno del cambiamento e apre suggestive possibilità per chi saprà intraprendere tale strada. Ma vanno messi in luce anche i rischi presenti, se a prevalere saranno le dure ragioni del mercato e non quelle del più pieno sviluppo della persona e della convivenza umana.

Affinchè la società e l’economia della conoscenza possano risultare veramente una grande opportunità per gli uomini del XXI secolo è necessario non solo porre al centro dei sistemi formativi l’apprendimento, ma precisare i tratti che tale apprendimento dovrebbe avere.

Ancora una volta prendiamo spunto da uno slogan molto fortunato: ‘insegnare ad apprendere’, sul cui significato sembrerebbe esserci un accordo universale. Tale espressione sintetizza il compito oggi affidato ai sistemi di istruzione. Se, infatti, si sposta l’enfasi dall’insegnamento all’apprendimento, insegnare ad apprendere diventa l’obiettivo cruciale.

Ma quali dovrebbe essere le dimensioni caratterizzanti tale apprendimento?

L’indicazione più autorevole ci viene offerta dal Rapporto Dèlors, dal nome dell’autorevole coordinatore. Il Rapporto si interroga su che cosa sia richiesto per fronteggiare adeguatamente le sfide che il XXI secolo pone e vede nell’educazione la principale risorsa. Bisogna avere coraggio di puntare sull’educazione, che viene definita come utopia necessaria: << Nell’affrontare le numerose sfide che il futuro ha in serbo, l’umanità vede nell’educazione una risorsa indispensabile nel suo tentativo di realizzare gli ideali di pace, libertà, giustizia sociale. In conclusione dei suoi lavori la Commissione ribadisce la propria convinzione riguardo alla funzione essenziale dell’educazione nello sviluppo continuo della persona e della società. La Commissione non vede l’educazione come una cura miracolosa, quasi un “Apriti Sesamo” per un mondo nel quale tutti questi ideali saranno realizzati, ma come una via, non la sola, ma certamente più importante delle altre, al servizio dello sviluppo umano più armonioso e più genuino possibili, in grado da sconfiggere la povertà,  l’esclusione, le incomprensioni, la guerra>>

L’educazione rappresenta il cuore pulsante del cammino verso la piena realizzazione umana, tanto a livello personale che sociale; nell’educazione è conservato il tesoro che deve essere messo a disposizione, per fruttificare. L’apprendimento è il frutto dell’educazione, il risultato prezioso al quale tendere. Ma quali sono le dimensioni che connotano l’apprendimento desiderato? Il cap. 4 del Rapporto le indica con grande efficacia, considerandole i pilastri saldi sui quali si può costruire un’umanità migliore: imparare a conoscere, imparare a fare, imparare a vivere insieme, imparare ad essere.

a)      Imparare a conoscere, richiede di disporre di una conoscenza generale sufficientemente ampia, che possa però combinarsi  con la scelta di lavorare in profondità su un piccolo numero di materie. E’ la possibilità di approfondimento che permette di sviluppare la fondamentale competenza dell’imparare ad imparare, competenza che consente di trarre beneficio dalle opportunità offerte dall’educazione nel corso della vita.

b)      Imparare a fare, comporta non semplicemente l’acquisizione di specifiche abilità professionali, ma, ancor di più, la capacità di affrontare una molteplicità di situazioni problematiche. Nell’imparare a fare è implicita anche la capacità di lavorare in gruppo. Inoltre questa competenza si apprende meglio mettendola alla prova nel contesto delle varie esperienze sociali e di lavoro, che possono essere, oltre che formali, anche informali.

c)      Imparare a convivere, sviluppando comprensione degli altri e apprezzando, nel lavoro comune, l’interdipendenza (impegnandosi nella realizzazione di progetti comuni  e imparando a gestire i possibili conflitti che la negoziazione con gli altri comporta) in uno spirito di rispetto per i valori del pluralismo, della reciproca comprensione e della pace.

d)     Imparare a essere, cioè imparare a sviluppare integralmente se stessi, la propria personalità, i propri talenti. Diventare capaci di agire con autonomia di giudizio e sapendo assumersi le proprie responsabilità. Tutto il potenziale umano va preso in considerazione e mobilitato: memoria, ragionamento, senso estetico, capacità fisiche e attitudini comunicative.

 La concezione di apprendimento che il rapporto Delors ci consegna va ben al di là di quella  interpretazione riduzionistica e funzionalista che è presente nella cultura diffusa e che è veicolata anche da numerosi documenti internazionali. L’utopia di cui si fa carico –ma, più propriamente, l’orizzonte possibile e non scontato al quale tendere- è quello di un nuovo umanesimo. La visione che ispira il Rapporto manda in frantumi l’immagine semplicistica  e strumentale della relazione tra formazione scolastica e mondo economico, per cui l’economia pone le richieste e la scuola funziona se sa offrire risposte on demand. Una simile visione è accattivante, perché chiede alla scuola di essere il motore delle innovazioni tecnologiche e della competitività economica, e questo spinge i decisori politici a promuovere policy orientate in tal senso, attraverso riforme curricolari e, ancora di più, utilizzando forme di rilevazioni  nazionali e internazionali finalizzate quasi esclusivamente a misurare i risultati degli apprendimenti in relazione all’adeguatezza con il tipo di richieste che si immagina provengano dalla sfera economica.

 Il contributo delle teorie dell’apprendimento

A sostenere l’urgenza di cambiare il paradigma didattico trasmissivo non ci sono solo i cambiamenti intervenuti in campo economico. La ricerca educativa ci fornisce ragioni ancora più forti. Siamo debitori al pensiero di J. Piaget, H. Wallon,  L. Vygotskij, M. Montessori, Bruner …, solo per citare alcuni dei grandi studiosi che ci hanno aperto gli occhi sull’infanzia, sulla costruzione del pensiero, sullo sviluppo del linguaggio, ma la ricerca sull’apprendimento ha fatto molti passi in avanti. Recentemente è stato pubblicato un testo particolarmente significativo: The nature of learning, che esplora, da varie prospettive, la natura dell’apprendimento e le strategie educative che meglio possono corrispondervi. Il lavoro, condotto a più mani da una equipe di studiosi di grande profilo, rappresenta una sorta di sintesi sullo stato dell’arte della ricerca educativa in tema di apprendimento (vengono prese in considerazione tematiche quali: il ruolo della motivazione e delle emozioni, l’apprendimento attraverso le tecnologie, le strategie della ricerca , del cooperative, del service learning, il ruolo della valutazione formativa, la comunità intesa come risorsa per l’apprendimento, l’influenza del contesto famigliare e sociale …).

Le indicazioni per la didattica che la ricerca sull’apprendimento mette a disposizione, e che chiedono di essere tradotte in maniera intelligente e ‘adattiva’ nei diversi contesti scolastici ci segnalano che:

  • La persona va messa al centro degli ambienti di apprendimento. Questo comporta la promozione di un coinvolgimento molto forte dello studente, che miri a farlo diventare autonomo nella gestione dei suoi processi di apprendimento e capace di riflettere sul suo lavoro, quindi con sviluppate competenze meta cognitive. Questo è possibile se cambia la posizione che l’insegnante assume, da “sage on the stage” a “guide on the side” (da “saggio sul palco” a “guida a fianco” dello studente).
  • L’apprendimento ha una natura sociale. L’aula non è un mero contenitore di singoli alunni, ma, almeno potenzialmente, un luogo di ricche interazioni sociali. L’apprendimento stesso ha una natura sociale e bisogna utilizzare tale caratteristica. Da qui l’importanza delle varie forme di apprendimento collaborativo e dello sviluppo di reti nelle quali siano possibili scambi e interazioni.
  • La motivazione e le emozioni hanno un ruolo molto importante. Se l’insegnate riconosce il ruolo che motivazione ed emozioni giocano nell’apprendimento dovrebbe cercare di entrare in sintonia con tale enorme potenziale, sempre disponibile. Non si richiede all’insegnante di essere ‘simpatico’, ‘amicone’ dei suoi allievi, ma di essere capace di ascolto, empatia, disponibilità a comprendere.
  • Le differenze individuali rappresentano la situazione normale di ogni classe. Le diversità rappresentano una sfida per l’insegnante, ma anche una grande opportunità. Del resto, se si mette al centro dell’ambiente di apprendimento l’alunno, la conseguenza logica è che si adottino strategie didattiche capaci di considerare le differenze individuali, sia per quanto riguarda la considerazione delle fragilità, dei punti deboli, sia per quanto riguarda le potenzialità di cui ciascun allievo dispone.
  • La Valutazione deve essere formativa. Gli alunni hanno bisogno di ricevere dall’insegnante continui feedback durante il loro percorso di apprendimento. La stessa valutazione va vista come occasione per favorire negli allievi una maggior consapevolezza circa le proprie acquisizioni e i punti di difficoltà e essere utilizzata , anche dall’insegnante, in funzione di una revisione del percorso e di una riprogettazione continua.
  • Va promossa la capacità di generare connessioni trasversali. Il richiamo è a superare i rigidi confini delle acquisizioni disciplinari. Un buon insegnamento promuove la capacità di creare collegamenti tra le diverse discipline e aree di conoscenze e di operare transfer..
  • L’apprendimento non ha solo un significato individuale ma sociale. Gli studenti che sanno mettere a disposizione degli altri quanto apprendono nella scuola, sperimentando forme di servizio alla comunità, apprendono meglio.

Le più accreditate ricerche sull’apprendimento forniscono, quindi, preziose indicazioni, che, se accolte, portano a ipotizzare un diverso modello di scuola, rinnovato tanto nel campo della didattica praticata quanto nella sua ambientazione organizzativa.

  Le linee guida di una didattica rinnovata rispondono a istanze quali la personalizzazione dell’apprendimento, la valorizzazione delle pratiche di aula come la ricerca e il lavorare per progetti, l’utilizzo consapevole delle tecnologie, il ricorso sistematico a forme di apprendimento collaborativo, l’enfasi sull’autoregolazione dell’apprendimento grazie alla promozione di forme di riflessività e di autovalutazione, lo stretto collegamento tra apprendimento scolastico e vita reale … 

Rispetto a questi orientamenti il modello didattico della lezione frontale, ancora oggi prevalente, guarda nella direzione opposta e dà le spalle al futuro. I suoi elementi costitutivi, che sono dati dalla linearità della relazione insegnamento-apprendimento, dalla rigidità dei ruoli assegnati (l’insegnante trasmette sapere, l’alunno recepisce; l’insegnante verifica, l’alunno riproduce il sapere appreso), dall’ asimmetria radicale di colui che ‘sa’ e di colui che ‘non sa’ e che deve imparare, appaiono ormai inadeguati.

La relazione didattica come arte dell’incoraggiamento

L’esperienza diffusa ci fa vedere come molti docenti, anche notevolmente colti e perfino appassionati al loro lavoro, non riescono a trasmettere interesse per quanto insegnano e ottengono risultati spesso deludenti. Perché l’azione didattica risulti efficace non è sufficiente che l’insegnante conosca bene i contenuti del suo insegnamento; l’insegnamento è una professione complessa, che include tra le sue dimensioni, oltre alla conoscenza della materia, la competenza nella trasmissione dei contenuti, nel coinvolgimento degli alunni, nella formazione di abilità di indagine. Essere insegnanti efficaci significa  possedere adeguate modalità di mediazione e di relazione.

I metodi di insegnamento rappresentano, per eccellenza, le forme della mediazione, una mediazione che, è –insieme- scienza e arte, anzi, per dirla con il bel titolo di un libro ‘arte dell’incoraggiamento.’

Ci sono due fondamentali aspetti che l’insegnante deve presidiare e padroneggiare, quello più squisitamente didattico, consistente nelle modalità di sollecitazione cognitiva e quello relazionale, che riguarda la qualità del rapporto, la motivazione al compito di apprendimento, la dimensione cooperativa del lavoro in aula. Saper insegnare comporta anche il saper incoraggiare, nel senso di sostenere gli alunni nell’impegnativo percorso della conquista dei significati. E’, questo, un compito così delicato e difficile, che viene considerato un’arte. Padroneggiare l’arte dell’incoraggiamento significa saper innescare “un processo di cooperazione tra insegnanti e allievi che mira a generare in questi ultimi uno stato d’animo positivo, di coraggio, rispetto alle possibilità di superare le diverse situazioni e raggiungere gli obiettivi preposti… L’esperienza di coraggio si configura come una strutturazione psichica complessa che dispone gli allievi ad agire in senso proattivo. Essa è il risultato di processi cognitivi tramite i quali la situazione da affrontare è valutata come superabile o quantomeno gestibile, valutazione che motiva la ricerca di soluzioni e l’assunzione di responsabilità.”

La qualità  della relazione  tra gli insegnanti e gli alunni, ma anche quella che lega gli alunni tra loro, è centrale, tanto che la qualità delle relazioni che si intessono nell’ambiente di apprendimento, potrebbe essere proposta come criterio di valutazione della qualità della didattica. Ci sono, però, diversi modi d’intendere la relazione tra insegnare e apprendere.

a) Relazione lineare. Nella concezione lineare del rapporto didattico è presente l’idea che l’ apprendimento sia una sorta di variabile dipendente dell’azione didattica, il suo  esito previsto ed atteso, positivo o negativo in conseguenza di un buon o cattivo insegnamento.  L’insegnamento è centrato sui contenuti, il modello didattico corrispondente è la lezione verbale, nella quale si ha la trasmissione delle conoscenze attraverso la loro esposizione: l’alunno è il ricevente di un messaggio che viaggia sempre nella stessa direzione, a partire dall’insegnante, unico emittente. In questo modello l’ apprendimento è inteso come variabile dipendente del processo di istruzione, come esito previsto e atteso, in una logica appunto lineare.

b) Relazione circolare. Alternativa al modello lineare, la relazione didattica può essere pensata come comunicazione circolare: comunicazione, dunque, non semplice trasmissione. In tale prospettiva, che si configura come dialogica, l’insegnante non è semplicemente l’emittente che invia in forma unidirezionale informazioni, ma è egli stesso destinatario di comunicazioni che è l’alunno ad emettere, contribuendo a modificare l’impostazione che l’insegnante ha inizialmente dato. Nella relazione circolare l’insegnante vede trasformato il suo ruolo, si fa ascoltatore, è disponibile a prendere in considerazione quanto l’alunno gli rimanda, anzi ne sollecita la partecipazione, stimola gli interventi. Possiamo parlare di una didattica come comunicazione, e non come trasmissione, quando c’è circolarità, ascolto reciproco, flessibilità adattiva dell’itinerario di insegnamento..

L’esperienza diffusa ci fa vedere come molti docenti, anche notevolmente colti e perfino appassionati al loro lavoro, non riescono a trasmettere interesse per quanto insegnano e ottengono risultati spesso deludenti. Perché l’azione didattica risulti efficace non è sufficiente che l’insegnante conosca bene i contenuti del suo insegnamento; l’insegnamento è una professione complessa, che include tra le sue dimensioni, oltre alla conoscenza della materia, la competenza nella trasmissione dei contenuti, nel coinvolgimento degli alunni, nella formazione di abilità di indagine. Essere insegnanti efficaci significa  possedere adeguate modalità di mediazione e di relazione.

Ci sono due fondamentali aspetti che l’insegnante deve presidiare e padroneggiare, quello più squisitamente didattico, consistente nelle modalità di sollecitazione cognitiva e quello relazionale, che riguarda la qualità del rapporto, la motivazione al compito di apprendimento, la dimensione cooperativa del lavoro in aula. Saper insegnare comporta anche il saper incoraggiare, nel senso di sostenere gli alunni nell’impegnativo percorso della conquista dei significati. E’, questo, un compito così delicato e difficile, che viene considerato un’arte.

Nell’allestire una buona proposta didattica si richiede all’insegnante una duplice attenzione. Da un lato vi sono elementi di natura affettiva da considerare: gli allievi, al loro ingresso nella scuola, possono o meno esplicitare i loro desideri, aspettative,  bisogni,  che comunque rendono tipico e singolare l’approccio con il mondo scolastico; essi, d’altro lato, si caratterizzano anche per una dotazione di natura cognitiva: conoscenze, abilità e competenze pregresse costituiscono un patrimonio spesso ben radicato, con il quale l’offerta scolastica dovrà fare i conti. L’insegnante dovrà adoperarsi perché le aspettative di partenza evolvano in vera e propria “motivazione” e, contemporaneamente, perché le cognizioni in ingresso valgano al raggiungimento del “successo formativo”.

Le dimensioni dell’insegnante che possono favorire la riuscita dell’azione educativa e didattica sembrano, pertanto, essere l’accoglienza, intesa come capacità di riconoscimento e di valorizzazione del vissuto emozionale degli alunni, e la competenza didatticaintesa come padronanza delle procedure di mediazione e di facilitazione dell’apprendimento.

La disponibilità di accoglienza e la competenza didattica si manifestano nella capacità di leggerele attese di superficie degli studenti in termini di bisogni profondi e di predisporre le risposte attraverso un’azione didattica non trasmissiva e unidirezionale, ma interpretata secondo le modalità del dialogo, come interazione costante tra oggetto e soggetto. In tale rapporto di circolarità tra azione d’insegnamento e processo di apprendimento, sembra consistere la “chiave” del successo formativo e, dunque, la qualità dell’offerta didattica.

Non è cosa facile prestare davvero attenzione alle richieste degli alunni, alle loro domande di senso, il più delle volte non manifestate esplicitamente, affidate a ‘tracce’ spesso poco percettibili. Non si tratta, semplicemente, di saper ‘interessare’ gli alunni, ma di motivarli in profondità. La curiosità è un ingrediente favorevole all’apprendimento, ma la motivazione ne è la radice profonda. L’insegnante che ‘ascolta’ si fa attento alla situazione concreta dell’alunno, alle competenze che dimostra, ma anche alle capacità che non sono ancora pienamente sviluppate o sono soltanto intuite, alle possibilità che chiedono un accompagnamento ed un sostegno educativo per tradursi in essere.

Una “buona” proposta formativa, e dunque una proposta significativa,  risulta da un processo d’insegnamento – apprendimento che, in quanto tale, si svolge su entrambi i versanti,  che del resto sono profondamente intrecciati,  promuovendo la circolarità  “virtuosa” tra motivazione e successo: alunni motivati più facilmente conseguono il successo formativo e, reciprocamente, il successo ha il potere di incrementare la motivazione. Esiste peraltro anche  la possibilità opposta:  esperienze negative, tali da produrre scoraggiamento e demotivazione, non solo non favoriscono la disponibilità all’apprendimento, ma possono addirittura alimentare una  circolarità  “viziosa”  tra demotivazione ed insuccesso scolastico. 

BENVENUTI a TUTTI nel BLOG delle SCUOLE ROSSELLIANE…

Carissimi Docenti,

ci accingiamo ad iniziare un nuovo percorso di vita che desideriamo sia per tutti fonte di arricchimento reciproco, attraverso un  percorso unitario, continuativo, collaborativo…. Il desiderio che mi e ci anima deve essere quello di creare RETE di SCUOLE rosselliane.

Il MOTTO che accompagnerà il nostro cammino sarà il seguente: ” EDUCHIAMO CON MISERICORDIA ALLA MISERICORDIA”.

Perciò …AUGURI a TUTTI e buona diffusione del carisma della Madre Rossello tra i nostri alunni, con le nostre famiglie, nel territorio dove ciascuno di noi sta operando.

BUON NATALE e SERENO ANNO 2019!     

Sr Maria Laura FdM