“Non inducete i ragazzi ad apprendere con la violenza e la severità, ma guidateli invece per mezzo di ciò che li diverte, affinché possano meglio scoprire l’inclinazione del loro animo” – Platone, Repubblica, VII
Spesso si sente parlare di genitori, insegnanti o datori di lavoro autoritari, in contrapposizione ad uno stile autorevole.
Di fronte all’errore dell’altro (figlio, studente o un collaboratore…) si può reagire in modi diversi:
“Hai sbagliato un’altra volta! Eppure lo sai che non si fa così!” (stile autoritario)
oppure
“Cerchiamo di capire cosa è successo” (stile autorevole)
Una persona è AUTOREVOLE quando:
1) riesce ad osservare e capire senza dare giudizi definitivi o etichette,
2) rispetta il punto di vista dell’altro, non lo giudica anche quando non lo condivide
3) valorizza l’autonomia dell’altro,
4) riconosce nell’altro le capacità e le valorizza.
Lo stile AUTORITARIO invece si caratterizza per richiedere l’obbedienza; la persona “autoritaria” non scende a compromessi ricorrendo anche a metodi coercitivi e punitivi.
La differenza più importante tra stile autorevole e autoritario sta nel fatto che l’autorità si configura per il potere che la persona assume: ad esempio uno studente obbedisce all’insegnante solo perché lo riconosce come colui che ha un potere legittimato dal ruolo che assume nel contesto scolastico. Oppure il titolare di un’azienda viene riconosciuto come “capo” perché di grado superiore rispetto ad un collaboratore visto come “sottoposto”; il potere, come in questi esempi, limita la libertà personale dell’altro perché manca la capacità di ascoltare, di comprendere e crea una relazione basata sulla sottomissione oppure sul conflitto.
Il comportamento autorevole, invece riconosce nell’altro le competenze e la relazione si basa su una corrispondenza tra le richieste che si fanno e ciò che si è.
All’altro estremo dell’autorità c’è il permissivismo, cioè quell’atteggiamento caratterizzato dalla convinzione che tutto sia lecito.
Quali sono le conseguenze di una relazione basata sull’autorità? Vediamone alcune:
Jesper Juul nel suo libro “il bambino è competente” (1995), parlando
della famiglia retta dal potere (autoritaria o patriarcale) afferma:
“quello che abbiamo insegnato ai figli per anni è il rispetto del
potere, dell’autorità e della violenza, non il rispetto per gli altri
esseri umani”.
Una donna che ho incontrato nel mio studio disse parlando di suo padre:
“mio padre che non voleva capire il mio punto di vista e categoricamente
il no era no e il si era si senza discutere, mi ha fatto sentire per
molto tempo inadeguata”. Non ascoltare il punto di vista dell’altro fa
sentire l’interlocutore svalorizzato nel suo modo di pensare e inizierà
piano piano a convincersi di non avere valore come persona.
La persona autoritaria fa notare l’errore dell’altro attraverso la critica con l’idea di correggere un comportamento.
Questo comporta che l’altro deve ammettere di aver sbagliato vivendo
l’errore come un fallimento perché vissuto come qualcosa di male. Tutti noi sappiamo quanto pesa vivere gli errori come fallimenti!
Baumrind (1977) identifica nel rapporto genitori-figli, oltre allo stile autoritario, permissivo e autorevole anche lo stile “iperprotettivo” e quello “respingente trascurante”. Il primo si esprime quando i genitori sono molto ansiosi, hanno paura che i figli sbaglino e tendono a sostituirsi a loro nelle attività che i figli potrebbero fare anche da soli. In questo caso si possono avere due conseguenze: i bambini dipendenti si caricano delle stesse ansie e paure dei genitori oppure i bambini si aspettano che i genitori soddisfino ogni loro richiesta. Lo stile “respingente-trascurante” si esprime quando i genitori non sono coinvolti nell’attività dei figli, di cui ignorano le necessità. Il messaggio che inviano ai figli è: “Fai quello che vuoi, lasciami in pace”.
La nostra capacità di relazionarci con gli altri dipende soprattutto dalle esperienze che abbiamo avuto in famiglia e dai ruoli che in essa abbiamo assunto. Può essere difficile cambiare atteggiamento anche quando ci rendiamo conto che il nostro modo di fare può ferire o danneggiare l’altro; per riuscirci è necessario un impegno quotidiano e la volontà di capire le nostre emozioni, cioè i “vissuti” che organizzano i nostri comportamenti e costruire, così, strategie che possono migliorare la relazione con i nostri contesti di appartenenza.
(M.Falocco, psicologa)