6 Febbraio 2019
Un docente di scuola media ha pensato di coinvolgere gli alunni in una dimostrazione pratica dal forte valore educativo.
Enrico Galiano è un insegnante delle medie (e scrittore) di Pordenone che ritiene che l’insegnamento non debba essere un monologo del docente, ma un’interazione con gli studenti. Per lui, i ragazzi «non ti ascoltano, se tu per primo non li ascolti». Tra le sue iniziative in classe, ha pensato di coinvolgere gli alunni in una dimostrazione pratica del dramma che vivono i migranti che attraversano il Mediterraneo, condividendo poi sulla sua pagina Facebook il racconto dell’esperienza. Siccome è un’attività che potrebbe essere replicata nelle scuole e che ha un forte valore educativo, abbiamo pensato di proporvelo.
“Ieri ho detto ai ragazzi: «Domani venite a scuola con una bottiglietta d’acqua vuota».
Sui loro volti, lampante che neanche le insegne di Las Vegas, la domanda «E che cavolo si inventerà stavolta il prof?»
«Lo vedrete domani».
Oggi sono entrato in classe. Con un secchio.
Ho detto ai ragazzi di sedersi in cerchio. Ho dato a ciascuno di loro un piccolo foglio di carta.
Gli ho detto: «Adesso pensate alla persona a cui volete più bene al
mondo. Poi disegnate un omino stilizzato e vicino ci scrivete il suo
nome»
«Ma io posso scriverne due?»
«Certo, anche tre se vuoi!»
E dopo ho chiesto loro di riempire la bottiglietta, di versarla nel secchio e di tornare a sedersi.
L’idea me l’ha data un libro: Ammare, di Alberto Pellai e sua moglie
Barbara Tamburini. Perché domenica è la Giornata della Memoria, e
sinceramente a me di parlare solo di Shoah non mi va più.
Perché per pensare che il passato si stia ripetendo identico bisogna
essere un po’ miopi. Ma per non vedere pezzi di quel passato nel nostro
presente, bisogna essere proprio ciechi.
Davanti ai loro occhi ho fatto una grande barca di carta, e gli ho detto
di metterci ciascuno il proprio foglietto sopra. Poi ho appoggiato la
barca sulla superficie dell’acqua. Infine ho iniziato a far vacillare il
secchio, fino a che la barchetta non si è ribaltata, facendo cadere giù
tutti i foglietti. Tutti quei nomi, quegli omini, giù in fondo al
secchio.
C’era chi aveva messo il papà, chi la migliore amica, chi il cuginetto di un anno.
Si è creato un silenzio incredibile. Più di un minuto senza che nessuno
fiatasse. E se qualcuno sa come sono i ragazzi di terza media, sa che
avere un minuto di totale spontaneo silenzio è quasi un miracolo.
C’erano anche degli occhi lucidi. Oltre ai miei, dico.
E allora ho raccontato loro del naufragio del 18 aprile 2015, in cui
nel Canale di Sicilia sono morte più di mille persone, tante quasi come
nel Titanic. La loro barca, un peschereccio fatiscente che di persone ne
poteva contenere al massimo duecento.
E ho raccontato loro di una di quelle: un bambino più piccolo di loro,
originario del Mali, che è stato ritrovato con la pagella cucita sulla
giacca.
«Secondo voi perché un bambino dovrebbe salire su una barca così?»
«Per far vedere che aveva studiato!»
«Per dire a tutti che era bravo a scuola!»
E poi un ragazzino macedone, di fianco a me, a bassa voce ha detto:
«Forse per far vedere che non era cattivo, come molti pensano di tutti quelli che arrivano».
La campanella è suonata. Anche per non appesantire troppo il momento,
ho detto loro di mettere a posto tutto, di andare a ricreazione. Sono
usciti, e piano piano hanno ricominciato a parlare, a chiedersi la
merenda, le solite cose.
Sono rimasto solo a sistemare la mia roba.
Poi è successa una cosa.
A un certo punto sento dei passi dietro di me.
Tre ragazze.
«Scusi prof»
«Sì?»
«Noi vorremmo…»
«Voi vorreste…?»
La più coraggiosa delle tre prende il coraggio e dice tutto in un fiato:
«Possiamo tirare fuori quei fogli da lì?».
Ci siamo chinati, li abbiamo tirati su uno per uno, insieme.
E intanto io le guardavo, e dentro di me pensavo che finché tre ragazze
decidono di saltare la ricreazione per tirare su dal fondo di un secchio
dei fogli di carta, c’è ancora motivo per credere in un mondo diverso.”